Tornare a scrivere di musica dopo un bel po’ di tempo è stato piacevole. Sixto Rodriguez è stata un’ottima occasione. Qui c’è il pezzo uscito su pagina99 we, il settimanale di pagina99. Vi capitasse di sentire i dischi, fate sapere (comprateli, però, perché a Sixto hanno già fregato parecchio…)
Il rock’n’roll ha bisogno di epica, l’epica ha bisogno di rock’n’roll e per noi, che abbiamo bisogno di tutti e due, quella di Sixto Rodriguez è la storia perfetta. Così perfetta che contiene di tutto: il blue collar orgoglioso, il mercato cattivo e ladro, il folk rockettaro a sfondo sociale, Detroit, il Sud Africa dell’apartheid, una seconda vita a risarcimento della prima. Ed è così, con questo mazzo di carte mal mescolate, che tocca andare con ordine, in attesa di andare al concerto (il 21 a Bologna, il 22 a Milano, uniche date italiano, sold out da mesi, quotazioni spaventose dai bagarini – pardon agenzie – che hanno fatto la spesa per tempo).
Sixto Rodriguez nasce nel 1942 a Detroit, figlio di un immigrato messicano e di una nativa americana. Quando ha venticinque anni pubblica un singolo che nessuno compra. Quando ne ha ventisette pubblica un album, Cold facts (1970), disco bellissimo e morbido, ricco di sfumature, intimo, politico e nervoso. Nessuno compra nemmeno quello. Ma Sixto non molla e l’anno dopo se ne esce con un altro album, Coming from Reality (1971), bello pure quello, pure a sentirlo oggi, che è tutto dire. Poi basta. Niente vendite, niente soldi, niente contratto. E così Sixto Rodriguez, musicista, torna al lavoro, fa il muratore, si laurea in filosofia, si occupa della sua comunità in una città in lento, inesorabile disarmo, si candida persino a sindaco di Detroit (nel 1989), quelle candidature di tigna e di ideale che non vincono mai. Ristruttura case. Fine.
E poi.
E poi, è il 2012, un bel documentario vince premi su premi. Lo ha girato uno svedese, Malik Bendjelloul e alla fine si aggiudica pure l’Oscar (2013). Si intitola Searching for Sugar man e racconta la storia di Sixto Rodriguez. No, non quella che avete letto fin qui. L’altra.
Perché mentre Sixto faceva il muratore a Detroit, musicista sconfitto, i suoi dischi vendevano in Sudafrica, dov’erano arrivati nella valigia di qualche turista. Diventavano laggiù una specie di colonna sonora della borghesia bianca antiapartheid, facevano da éducation sentimentale a un ribellismo voglioso di musica e di canzoni, di poesie e di suoni, tutte cose che l’embargo bloccava da fuori la radio censurava da dentro. Negato. Vietato.
E così il documentario racconta una ricerca: due fans sudafricani che cercano questo Rodriguez, che fine ha fatto, dov’è finito dopo quei due dischi eccelsi, che lì in Sudafrica canticchiavano tutti. E di leggenda in leggenda (è morto, sì, si è ucciso sul palco, sì), mettono un annuncio in rete. Sono gli albori di Internet, e sono loro i primi a stupirsi quando la figlia di Sixto telefona in Sudafrica. Sì, papà è qui, è vivo, certo, come diavolo lo conoscete? Papà Sixto non lo conosce nessuno, e quei due dischi sono archeologia.
Della grande rapina a Sixto Rodriguez (mezzo milione di dischi venduti in Sudafrica, per dire, senza che lui abbia visto un centesimo) non si saprà mai nulla. I soldi, la fama da star, ciò che gli è stato rubato non tornerà.
Ma intanto torna lui. Con qualche concerto in Sudafrica, un mini tour in Australia. E poi – dal 2013, dall’Oscar che premia la storia di un muratore americano di origine messicana, famoso in Sudafrica, raccontata da uno svedese – con una popolarità mondiale. Perché piace la favola di Sixto, e la favola fa sentire la sua musica, e la sua musica piace anche più della favola. Quello che si dice una rivincita.
I due dischi (già semiclandestinamente ripubblicati 2009 dalla Light in the Attic Records di Seattle) ora vendono bene, a più di trent’anni dalla pubblicazione. Sugar man (è il titolo della canzone che apre il suo primo disco) ha finalmente indietro la sua storia e i suoi meriti. E si compie la magia folle e l’epica incredibile che vogliamo, di cui abbiamo bisogno come il pane: che un disco pubblicato nel 1970 sia uno dei migliori sentiti nell’ultimo anno.
Capolavoro assoluto, ritmato da una chitarra perfetta, piccole dissonanze, echi di Dylan e sapori del Neil Young di quegli anni, accenni di Crosby, Still, Nash e Young, piccole madeleine di Cat Stevens. Un campionario del meglio che si poteva sentire nel 1970, ma con una personalità tutta sua, una voce gentile, una mestizia allegra, una capacità di scrittura sbalorditiva. Sugar man è il piccolo Mr.Tambourine di Sixto Rodriguez, che fa il paio, tra le perle del disco, con Crucify your mind. Ballate meste e umili, che contagiano per sensibilità e purezza. Una complessità semplicissima, una linearità sghemba e prodigiosa. E giri di basso che non ti aspetti, rotondi e complici, a sostenere il disegno che si fa ad ogni ascolto più denso, si direbbe (scusate) più colto, come nella ritmica elettrica di I wonder, un vero gioiello. Poi, nel secondo disco (Coming from Reality) qualche talkin’ blues, qualche stimolo elettrico in più, qualche gioco più ardito. Due dischi – nella categoria folk urbano americano – che basterebbero da soli a ridisegnare e ridefinire quel contesto. Contesto ricchissimo, peraltro, affollato di meravigliosi songwriters. Sixto si chiamava Rodriguez, questo forse non piacque. Sixto non andò mai al Village, non praticò rivoluzioni beat, e anche questo è male, ma non son cose da muratori. Sixto somigliava ai personaggi delle sue canzoni, gente “che perde il lavoro due settimane prima di Natale”, che sapeva che la povertà di molti comincia dove fiorisce la ricchezza di pochi (Rich Folks Hoax), che vedeva i trucchi del potere (Establishment Blues).
Era perfetto, insomma, per la sua epoca e per il suo mondo, che però non lo volle. Il suo seme fiorì in altri mondi, e questo gli rende giustizia, il muratore di Detroit che ha ripreso a suonare in giro per il mondo, vecchio ma non stanco. E soprattutto non triste. Perché Sixto Rodriguez lo sa – e lo dice con quello che canta – che blue collar una volta, blue collar per sempre. E con quello spirito ora se ne va in giro, più che settantenne, mollato il cantiere e ripresa la chitarra. Una storia di epica e rock’n’roll, insomma. Di quelle che si sentono una volta nella vita. E fa piacere sentirle, e si canticchiano bene.
Tratto da: http://www.alessandrorobecchi.it/index.php/201403/sixto-rodriguez-la-favola-su-sugar-man/