mercoledì 26 ottobre 2011



INTERVISTA a Loretta Napoleoni


Negli ultimi vent’anni, senza che ce ne accorgessimo, le élite della globalizzazione hanno sequestrato la democrazia che oggi, ahimè, rappresenta loro e noi. E’ giunta l’ora di riprendersi ciò che è nostro …
E’ un grido di battaglia il nuovo libro di Loretta Napoleoni, “Il Contagio“, edito dalla Rizzoli. Partendo dalle rivolte che hanno visito protagonisti i paesi a sud del Mediterraneo, le proteste degli Indignados madrileni alla Puerta del Sol, la ribellione dei giovani greci contro i diktat dell’Europa, fino alle razzie che hanno sconvolto la swinging London, Loretta Napoleoni analizza lo stato di crisi in cui siamo sprofondati, dopo che la nascita dell’euro ha ingrassato le élite europee. In Italia sono il 10 percento della popolazione e detengono il 45 percento del patrimonio nazionale. (continua)
Iniziamo dalla dedica. Perché un libro dedicato a una ragazza “che è lo stereotipo della precaria universitaria”?
 Perché è un libro diretto a loro. E’ un libro che vuole spiegare loro la situazione, per invitarli a scendere in piazza e a protestare, come hanno fatto gli spagnoli, perché altrimenti non cambierà nulla.
E’ possibile rintracciare un momento in cui è scoppiata la bolla?
La crisi è inizia nel 2007 con la storia dei subprime. Attenzione, però, noi non ci troviamo in presenza di una bolla finanziaria. Noi oggi siamo davanti a uno stato che ha usato il debito per proseguire una politica di malgoverno. Basti pensare allo scandalo che occupa tutte le prime pagine in questi giorni: escort usate per aggiudicarsi degli appalti. Da dove sono usciti tutti quei soldi? Dal debito statale, che ora gli italiani devono pagare.
Nel suo libro parla di tecniche di occultamento del debito …
All’inizio erano state delle manovre fatte per entrare nell’euro e avevano dato un impulso all’economia. Poi, però, questi stratagemmi avrebbero dovuto essere abbandonati, invece sono diventati prassi.
Così come i privati truccano i bilanci, così ha fatto lo stato in tutti questi anni.
Sta dicendo che il nostro debito è aumentato da quando siamo entrati in Europa?
Assolutamente
Secondo lei l’Italia dovrebbe uscire dall’euro per gestire la situazione?
Si, io credo che l’Italia dovrebbe andare in un default pilotato, cosa che implica l’abbandono della moneta unica. L’uscita dall’euro permetterebbe una ripresa delle esportazioni e con esse una certa ripresa economica. Certo, c’è il rischio di importare anche l’inflazione, ma fra questo pericolo e quello costituito da una politica di austerità che porti agli stessi risultati della Grecia, un po’ d’inflazione mi sembra il male minore.
Ma non sarebbe la fine del sogno europeo?
No, perché? Uno può uscire dall’euro e restare dentro all’Europa. In Italia c’è stata una sorta di lavaggio del cervello sull’euro, che negli anni ’90 ci ha dato sicuramente una spinta e ci ha costretti a una disciplina che non avevamo mai avuto. Solo che poi l’abbiamo abbandonata. E quindi non siamo di fronte a un problema di tipo economico, ma di mala gestione da parte nostra.
Sarebbe replicabile, secondo lei, in Italia una rinegoziazione del debito come è avvenuto in Islanda?
Certo. Uno stato sovrano può fare quello che vuole. Noi, tra l’altro, abbiamo un avanzo primario che ci consentirebbe di assentarci, per un po’ dal mercato dei capitali. Però queste sono decisioni che vanno prese. Invece di stare lì a farci dire da Bruxelles quello che dobbiamo fare, siamo noi che dobbiamo imporre le condizioni.
Come giudica la mossa di avvicinamento al governo cinese nella speranza di vendergli parte del nostro debito?
E’ ridicolo. Noi abbiamo la terza riserva aurea più grande al mondo. Settanta famiglie gestiscono il 45 percento della ricchezza nazionale. Basterebbe una patrimoniale e vendere un po’ d’oro. Ma sono cose che non si sanno e l’informazione in Italia non informa. Oltretutto, qui si è deciso di mettere in vendita parte del paese senza chiedere il permesso ai legittimi proprietari, che siamo noi.
Quali sono secondo lei le prospettive per l’autunno? Se l’Europa non sarà in grado di garantire il debito di tutti i paesi Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) cosa succederà?
Si profilano due scenari a mio avviso: nel primo le banche centrali proseguiranno a stampare carta moneta per immettere liquidità continua. Sarà come carta straccia che andrà ad alimentare il mercato finanziario, senza influire sulla crescita economica. Al contrario, noi rimarremo a crescita zero, intrappolati dentro a una deflazione inesorabile che ci impoverirà lentamente. Sarà come morire di un cancro terminale dolorosissimo, invece che per un attacco di cuore. Ma potremmo anche scegliere la terapia d’urto e aggredire il male che ci affligge: quindi il default pilotato, l’uscita dall’euro, la rinegoziazione del debito. Sarebbe come un terremoto che potrebbe uccidere il paziente. Ma bisogna avere la consapevolezza che, in ogni caso, ci troviamo di fronte a un malato terminale. Altre soluzioni non sono date: scordiamoci che i tedeschi pagheranno il nostro debito. Questo non succederà mai.
E le conseguenze politiche di questo secondo scenario?
Se s’intraprenderà la strada del default pilotato questa classe politica verrà spazzata via. Non a caso questa è una soluzione che non viene prospettata dalla politica. E’ una soluzione che deve essere chiesta dal popolo, come è avvenuto in Islanda quando sono stati travolti dalla bancarotta. Con una differenza: noi dovremo decidere prima, perché facendo parte dell’euro, un’eventuale bancarotta ci travolgerebbe, con effetti simili a quelli che si sono avuti in Argentina.
Insomma, “uno spettro si aggira per l’Europa”?
Si, infatti il mio libro si apre proprio riprendendo il Manifesto del Partito Comunista. Siamo in un momento di grande svolta. L’autunno e il prossimo anno saranno durissimi. Basti vedere cosa non è successo negli ultimi tre mesi in termini di rivolte popolari.
http://it.wikipedia.org/wiki/Loretta_Napoleoni

martedì 25 ottobre 2011

il pilota

Tazio Nuvolari correva per la scuderia Ferrari. Scoprì che il Commendatore gli aveva fatto preparare il biglietto di andata e ritorno. Nuvolari lo guardò e disse: "Dicono che sei un buon amministratore, ma mi accorgo che non è vero. Dovevi farmi prendere solo il biglietto di andata, si parte per una corsa..".
- Ciao Supersic -

domenica 23 ottobre 2011

Offerings to the God of speed


un film per tutti gli appassionati di auto e moto d'epoca, e non solo
ilmarietto consiglia:
The World's Fastest Indian
Nuova Zelanda, USA, Svizzera, Giappone - 2005
Antony Hopkins è: Burt Munro



venerdì 21 ottobre 2011



Steve Jobs e Bill Gates, quel derby tra Apple e Microsoft che è lotta tra visioni del mondo
Gates ha sempre puntato sul software, senza curarsi troppo delle macchine e facendo del suo sistema operativo uno standard per i computer. Jobs, invece, ha scommesso sul prodotto: "non compatibile", ma innovativo, avveniristico e d'élite. Abbastanza perché l'Ipod, l'Iphone e l'I-pad diventassero quegli oggetti di culto in grado di cambiare le nostre vite
Nella foto che vedete qui a fianco c’è molto del derby di una vita tra Steve e Bill, i due ragazzi del ’55 che hanno cambiato il mondo. Steve, miliardario in jeans, scarpe da tennis e dolcevita nero, ha stile, lo stile di chi pensa che gli occhi siano il motore del mondo. Bill ha il consueto aspetto di chi si veste senza accendere la luce, perché per lui la vita avviene dentro il cervello, biologico o elettronico che sia. Steve ha origini modeste, e per lui la vita è battaglia. Bill è nato ricco, è per lui le guerre industriali sono un rompicapo, un videogioco, una prova d’intelligenza. Scherzano, Steve è più spiritoso e sfotte il rivale, Bill ride perché la regola americana è che ci si arrabbia solo a telecamere spente.

Trentacinque anni fa Bill ha scritto il software per il primo grande successo di Steve, l’Apple II. “Allora eravamo sempre i più giovani in ogni riunione, oggi mi sembra che siamo i più vecchi”, dice Steve ammiccando al pubblico di giovani fan.

QUASI QUARANT’ANNI di storie parallele che saranno a lungo studiate nei corsi di economia, perché questi due visionari hanno cambiato il mondo con filosofie e modi di agire diversissimi eppure convergenti. Per molti anni è stata la Microsoft di Bill Gates il cavallo vincente, mentre alla Apple di Steve Jobs toccava il ruolo del perdente di successo. Oggi la morte sconfigge Steve nel momento culminante del suo trionfo strategico. La prima differenza fondamentale tra i due è che Bill Gates ha sempre puntato al dominio del mercato attraverso le strategie di mercato, mentreSteve Jobs ha sempre seguito la sua stella polare, il prodotto. La seconda differenza è cheBill ha creduto che fosse il software la carta vincente, Steve invece ha scommesso sull’hardware anche quando tutti gli dicevano che era una strada a fondo cieco. Negli anni Settanta Bill Gates ha avuto l’intuizione vincente che il software era il motore di tutto e i suoi sistemi operativi e i suoi programmi avrebbero definito lo standard del mercato, consentendogli di dominarlo: come se un fabbricante di auto avesse potuto brevettare il numero di ruote, quattro. Dando gratuitamente alla Ibm il suo Ms-Dos, che faceva funzionare il primo personal computer nel 1981, Bill prima ha propiziato la diffusione del suo standard, poi ha costretto tutti i produttori di computer a pagargli a caro prezzo l’Ms-Dos, che consentiva loro di offrire computer “compatibili”, cioè in grado di dialogare e passarsi documenti l’uno con l’altro (attraverso i dischetti, fino a che non è arrivato Internet).

STEVE INTANTO seguiva il suo sogno di vendere i computer più belli e avanzati. Con il Macintosh (1984) introduce le icone e il mouse. Ma il mondo Apple rimane un mondo chiuso, macchine potentissime che dialogano solo con se stesse, e costano di più. Le vendite arrancano, Jobs viene cacciato dalla sua azienda e sostituito con un mago del marketing, John Sculley, proveniente dalla Pepsi-Cola. Non si arrende. Riparte da zero e progetta un computer ancora più avveniristico e curato, il Next, un cubo nero bellissimo che comprano in pochissimi. Poi cambia tutto. La fede di Steve nella forza del prodotto, nella forza innovativa della macchina, viene premiata. Arrivano l’i-Pod, che rivoluziona il modo di ascoltare la musica. Arriva l’iPhone, che mette insieme il telefono con le funzioni di un computer. Arriva l’iPad, che trasforma il modo di stare nella rete. Il mondo immobile di Bill, dove stupidi pezzi di ferro fabbricati dagli asiatici a prezzo stracciato erano come l’asfalto su cui far correre i suoi programmi, si è sfasciato. L’hardware di Jobs è diventato il motore del mercato, ha trasformato i modelli di consumo. I produttori di software come la Microsoft, dopo decenni in cui menavano la danza, si sono trovati improvvisamente a inseguire. Nel frattempo, grazie a Internet, è avvenuto un altro grande cambiamento. I nuovi leoni del mercato sono Google, Twitter, Facebook. Nè hardware, nè software. Vendono servizi sulla rete, un mercato nuovo e dirompente nel quale la Microsoft cerca di entrare da 15 anni inanellando una sconfitta dopo l’altra. Jobs alla fine si è trovato al posto giusto nel momento giusto, dando le macchine giuste per i nuovi servizi e addirittura prefigurando l’innovazione con le prestazioni dei suoi oggetti di design. Il derby dei due ragazzi del ’55 si chiude prima del tempo con un esito drammatico: Steve è morto nel momento del trionfo, Bill è vivo ma in declino.